Come funzionano le abitudini nel marketing

Come funzionano le abitudini nel marketing

La guida ideale per chi vuole scoprire come funzionano le abitudini nel marketing e perché sono così tanto importanti.

Pubblicato il Scritto da Matteo Feduzi Marketing Nessun commento

Se sei qui per scoprire il potere delle abitudini nel marketing sei nel posto giusto.

Poche persone arrivano così a fondo e mi fa molto piacere che tu sia qui, questo mi dice molto di te e mi fa pensare che sei una persona scrupolosa e affamato di conoscenza proprio come lo sono anche io.

Quindi lascia che ti racconti una storia.

Fino al conseguimento del diploma sono sempre stato un ragazzo molto svogliato.

Ero il solito ragazzo che preferiva stare nel divano piuttosto che uscire con gli amici.

Oggi invece la mia routine è cambiata completamente:

  • Mi sveglio alle 7:30 per fare colazione.
  • Inizio a lavorare alle 8:00.
  • Dalle 11:00 leggo.
  • Alle 12:00 pranzo.
  • Dalle 13:30 continuo a lavorare.
  • Alle 18:00 faccio allenamento fisico.

Tutt’oggi molte persone mi dicono: “ma chi te lo fa fare?” o “lavori dove vuoi, non puoi svegliarti più tardi?”.

Vedi, il problema è proprio questo.

La routine mi permette di dare il massimo del mio potenziale.

“Matteo, ma cosa stai dicendo? Cosa vuol dire che le routine permettono di dare il massimo?”.

Ti faccio subito un esempio.

Hai presente la prima volta che hai iniziato a guidare? Ti ricordi quanto era complicato?

Dovevi pensare a mettere la cintura, accendere la macchina, sistemare gli specchietti, cambiare marcia, frenare, accelerare, ecc…

Oggi invece sono sicuro che non hai alcun tipo di problema a guidare e quando prendi la macchina non hai bisogno di pensare più di quel tanto perché ogni azione è già automatica.

Ma com’è possibile? Te lo sei mai chiesto?

Semplice, ti sei abituato.

Sono sicuro che sei una persona che non si accontenta di un semplice riassunto. Acquista subito il libro di Charles Duhigg e scopri il potere delle abitudini.

Come funzionano le abitudini

Ok, so che l’esempio precedente potrebbe non bastare, perciò vediamo insieme l’esperimento della ricercatrice Ann Graybiel.

Lo studio che vedeva come protagonisti dei topi da laboratorio dimostrava come i topi si abituassero all’ambiente circostante.

L’ambiente era a forma di “T” e il topo veniva inserito in un piccolo spazio dietro un cancelletto che si apriva con l’aggiunta di un suono.

L’obiettivo del topo era quello di raggiungere la cioccolata nel lato sinistro della parte alta della “T”.

La prima volta che ogni topo veniva inserito nel percorso dell’immagine sopra, l’attività nel cervello era sempre molto alta e quest’ultimo si trovava a lavorare intensamente senza interruzione:

Il clic rappresenta l’apertura del cancelletto con il suono, la prima sezione era il gambo della “T” e la seconda sezione era la parte alta della “T” nella quale il topo trovava la sua ricompensa (cioccolato).

Una settimana dopo che il ratto continuava a ripetere lo stesso percorso l’attività cerebrale diminuiva:

Questo processo, in cui il cervello traduce una sequenza di azioni in una routine automatica, è noto come chunking, ovvero acquisizione di unità d’informazione, ed è alla base della formazione delle abitudini.

Questi picchi corrispondo al modo in cui il cervello stabilisce quando cedere il controllo a un’abitudine, e quale abitudine usare.

Dietro una parete divisoria, ad esempio, difficilmente un ratto sa se si trova in un labirinto che gli è familiare o in un armadio che non ha mai visto, magari con un gatto in agguato appena fuori.

Per risolvere questa incertezza il cervello compie un grosso sforzo all’inizio di un’abitudine, cercando qualcosa (un segnale) che gli offra un indizio su quale modello usare.

Dietro una parete divisoria, se il ratto sente un clic sa che deve usare l’abitudine “labirinto”. Se sente un miagolio sceglie un modello diverso.

E al termine dell’attività, quando il ratto trova il premio, il cervello si riattiva e controlla che tutto si sia svolto secondo le aspettative.

Come si suddividono le abitudini

Questo processo circolare, chiamato circolo dell’abitudine (o loop habit), può essere suddiviso in tre parti:

  • Segnale: un interruttore che dice al nostro cervello di entrare in modalità automatica e quale abitudine usare.
  • Routine: può essere fisica, emotiva o mentale.
  • Gratificazione: indica al nostro cervello se vale la pena di memorizzare una certa routine.

Nel corso del tempo il circolo dell’abitudine diventa sempre più automatico; segnale e gratificazione si intrecciano fra loro fino a indurre un forte senso di aspettativa e craving, ossia bisogno.

Perché si formano le abitudini?

Ma perché si formano le abitudini? E ne abbiamo veramente bisogno?

Secondo gli scienziati le abitudini si formano perché il cervello è sempre alla ricerca di modi per risparmiare energia.

Se venisse lasciato ai propri meccanismi, il cervello cercherebbe di trasformare ogni routine in abitudine, perché le abitudini permettono alla nostra mente di ridurre gli sforzi.

Questo istinto è enormemente vantaggioso.

Un cervello efficiente richiede meno spazio, il che a sua volta comporta una testa più piccola, e questo implica un parto più agevole e un tasso di mortalità inferiore fra neonati e puerpere.

Un cervello efficiente ci permette anche di smettere di pensare costantemente a comportamenti elementari come camminare e decidere cosa mangiare, in modo da poter dedicare le nostre energie mentali all’invenzione di lance, sistemi d’irrigazione, aeroplani e videogiochi.

Ma risparmiare energie mentali può essere pericoloso, perché se il nostro cervello si rilassasse nel momento sbagliato potrebbe sfuggirci qualcosa di importante, come ad esempio un predatore nascosto fra i cespugli o un’auto che sopraggiunge a velocità sostenuta mentre stiamo attraversando la strada.

Così i nuclei della base hanno escogitato un sistema ingegnoso per stabilire quando lasciare che le abitudini prendano il sopravvento.

Questo meccanismo si attiva all’inizio o alla fine di una certa unità d’informazione comportamentale (chunk).

Le abitudini nel marketing con Claude C. Hopkins

Alla fine della prima guerra mondiale nel 1918, gli americani che si lavavano i denti erano solo il 5%, tanto che questa scarsa igiene dentale venne considerata un rischio per la sicurezza nazionale.

Nel frattempo stava nascendo un dentifricio che sarebbe diventato uno dei prodotti più conosciuti al mondo e che in seguito contribuì a creare un’abitudine, quella di lavarsi i denti: il Pepsodent.

Hopkins venne contatto da i dirigenti del Pepsodent per prendersi carico delle campagne pubblicitarie, ma solo dopo varie richieste accettò.

Fu una delle decisioni più sagge della sua vita.

Dieci anni dopo la prima campagna, gli americani che si lavavano i denti erano più del 50%.

Ora potresti pensare che fu il primo dentifricio ad essere inventato e che questa situazione sia più che normale in questo caso.

La realtà è che il primo tubetto di dentifricio è nato nel 1892 ma non ha mai riscosso tutta questa popolarità.

Allora come ha fatto Hopkins a portare più della maggior parte della popolazione americana a lavarsi i denti quando partiva da un misero 5%?

Semplice, ha creato un’abitudine.

Nei messaggi promozionali veniva consigliato di passarsi la lingua sui denti (segnale), rendendosi conto della presenza della patina.

Questo segnale permetteva poi di innescare la routine (lavarsi i denti) che portava a sua volta alla gratificazione.

Ma qual è la gratificazione?

Ovviamente i denti puliti, giusto? Sbagliato.

Per capire qual è la gratificazione dobbiamo consultare la ricetta che compare sulla domanda di brevetto del Pepsodent è che mostra una cosa molto interessante: a differenza di altre paste dentifricie dell’epoca, Pepsodent conteneva acido citrico, olio essenziale di menta e altre sostanze chimiche.

Questi ingredienti erano stati aggiunti dall’inventore di Pepsodent affinché il dentifricio offrisse una sensazione di freschezza, ma ebbero un altro effetto imprevisto.

Erano irritanti che inducevano un lieve pizzicore sulla lingua e sulle gengive.

Ma perché Pepsodent era diventato il marchio dominante sul mercato? Era ciò che si chiedeva la concorrenza.

I ricercatori scoprirono quasi subito che, quando i consumatori si dimenticavano di usare il Pepsodent, se ne accorgevano perché non avvertivano perché non avvertivano la sensazione di freschezza e pizzicore.

Si aspettavano quella leggera irritazione, ne provavano il bisogno. Al contrario, avavno l’impressione di non avere la bocca pulita.

Pepsodent vendeva una sensazione.

Oggi quasi tutti i dentifrici contengono additivi con l’unico scopo di far pizzicare la bocca dopo essersi lavati i denti.

La stessa Tracy Sinclair, brand manager per i dentifrici Oral-B e Crest Kids dice:

“I consumatori hanno bisogno di un segnale che il prodotto funzioni. Possiamo dare qualsiasi gusto a un dentifricio – mirtillo, tè verde – ma la sensazione di pizzicore è necessaria perché il pubblico percepisca di avere la bocca pulita. Il pizzicore non fa funzionare meglio il prodotto. Serve solo a convincere la gente che il dentifricio fa il suo lavoro.”

Sicuramente ci avrai fatto caso anche tu a quel pizzichio, vero? 😉

Conclusioni

Sono affascinato dal potere delle abitudini nel marketing e delle abitudini in generale e come queste ci aiutano nella vita di tutti i giorni.

È vero che queste ultime possano creare routine sbagliate come quelle del gioco d’azzardo, ma è altrettanto vero che possono creare routine salutati e genuine.

Tu cosa ne pensi? Fammelo sapere nei commenti!

PS. La maggior parte dei contenuti di questa guida sono tratti dal libro di Charles Duhigg, ti consiglio di acquistare il suo libro per un approfondimento più completo.

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